Il glicine e la jacaranda.

Il glicine e la jacaranda.

di Settimo Termini

Il glicine è una pianta che mi ha sempre affascinato. Per la spettacolarità della sua fioritura intensa, per il suo colore e, anche, per la sua breve durata. Come se, dopo aver mostrato ciò di cui era capace, preferisse “vivere nascostamente”, seguendo il consiglio di alcuni nostri antenati. Ed è una pianta con cui sono da sempre stato familiare. Fin da quando, da ragazzo, la vedevo esplodere nel microgiardinetto su cui si affacciava il balcone della cucina della casa dei miei. O nel prato della campagna di Margi con la pianta che mia sorella Paola ha voluto si avviluppasse sull’arco di ferro che protegge l’altalena, intrecciandosi con esso. Una pianta che piaceva tantissimo anche a mia moglie Marina, per la sua levità e armonia e, poi, per il colore, prediligendo lei ogni sfumatura violacea.

La jacaranda, invece l’ho scoperta di recente – da pochi anni. Pur avendola avuta sotto gli occhi da sempre perché è presente in molti luoghi a Palermo e anche a Napoli. L’ho scoperta quando ho conosciuto il suo nome. Quando, dopo aver letto il nome, mi sono chiesto cosa ci fosse dietro di esso e ho identificato questo qualcosa ‘separandolo’ dallo sfondo indistinto che contiene tutte le cose e da cui emerge solo ciò che sappiamo nominare o decidiamo di farlo. Mi è sembrato che, senza volerlo, stessi seguendo le indicazioni di George Spencer-Brown nel suo Laws of Form.

Le lunghe passeggiate, effettuate con passo lento, che iniziavo in via Isonzo, un viale ricco di folte jacarande, proprio per godere appieno del breve periodo in cui questi straordinari fiori tra il blu e il violaceo mostrano la loro ricchezza, risalgono a molti mesi fa ma sono proprio quelli in cui questa inopinata guerra è scoppiata. Quelli in cui allo stupore, o, meglio, all’incredulità, per quello che era accaduto si associava qualcosa di più di una speranza, la convinzione che qualcosa in quei mesi avrebbe dovuto accadere che ponesse, rapidamente, termine a ciò che non avrebbe proprio dovuto iniziare.

Passeggiate nel corso delle quali le riflessioni su ciò che avevo letto si alternavano – nelle soste su un muretto lungo il viale della Libertà o nelle panchine del Giardino inglese e di Piazza Politeama, piena anch’essa di jacarande – alla lettura d’altro e, ancora più spesso, alla ricerca di nuovi e diversi stimoli alla riflessione. Di tutto questo non parlerò. Citerò solo i ricchissimi fascicoli di Limes con tutta la ricca e saggia informazione che Lucio Caracciolo è riuscito a convogliare per una lettura informata dei fatti. Desidero riferirmi, qui, solo alle informazioni contenute in questi fascicoli non a suoi libri che, esponendo un particolare punto di vista, possono essere meno dialoganti.

Altri libri sono stati per me molto informativi, presentando aspetti differenti, cosa tanto più utile quanto più le cose venivano guardate da prospettive diverse, perché è proprio (e solo) dal confronto di diversi modi di vedere che possiamo criticamente affrontare i problemi, quelli importanti, e poi risolverli.

Alcuni di questi libri hanno dialogato, tra loro e con quello che stava (e sta) accadendo, ma se li citassi mi perderei nella trama complessa delle motivazioni che dovrei dare per raccontare come mi sono imbattuto in essi e perché li ho presi sul serio quando tutto uno stucchevole, uniforme coro spingeva in una direzione diversa. Ma un nome è doveroso che lo faccia. Quello dell’ambasciatore Sergio Romano, lucidissimo novantatreenne. I nomi dei suoi libri (tutti dialoganti con altri libri e con la realtà) e dei suoi interventi, se vuole, li cerchi il lettore. In fondo il dialogo più profondo (che in un certo senso li racchiude tutti) è proprio quello tra le analisi corrette, basate su una conoscenza dello stato delle cose, e su una informazione il più possibile completa, con riflessioni analoghe riguardanti altri periodi storici.

Ormai dovrebbe essere chiaro che in questa rubrica mi riferisco proprio a un dialogo che intercorrere tra i libri. In certi casi, quelli per me stimolanti, sembra veramente che a una domanda che nasce leggendo un libro, la risposta la dia proprio un altro libro magari molto remoto nel tempo. Proprio come nel nostro caso. Perché il dialogo più fruttuoso tra tutte le cose serie (e non sono moltissime) che ho letto in questo periodo è quello che si è stabilito, in modo assolutamente naturale, con Simone Weil. É proprio lei che fornisce le risposte a molte domande difficili che sorgono volendo esaminare in modo spassionato ciò che sta succedendo oggi. Per semplicità mi limiterò a un suo saggio del 1937, tradotto in italiano per la prima volta nel 1991 e, adesso, contenuto in un volume antologico intitolato “Sulla guerra” (Il Saggiatore) apparso nel 2017; prima quindi di questo fatale 24 febbraio e anche degli sconvolgimenti prodotti dal Covid che l’uso di un linguaggio guerresco – sia pur in senso metaforico – hanno stimolato. Segno quindi che nell’atmosfera culturale generale, riflessioni sulla guerra avrebbero potuto contare su un certo numero di lettori (nessun editore pubblica qualcosa se non presume che ci sia un piccolo ma non troppo esiguo numero di acquirenti) e non solo per il traino che poteva dare il nome di Simone. Per quanto, fortunatamente, il suo nome (assieme alla profondità delle sue riflessioni) comincia ad essere relativamente noto non credo che da solo avrebbe convogliato un numero grande di acquirenti del libro. Ma che dice la nostra acuta osservatrice che può essere utile anche oggi? Quali sono le risposte che ci aiuta a dare ai quesiti che la situazione (e pochi commentatori) ci costringe a porre a noi stessi? Accenno a qualcosa:

I conflitti più minacciosi hanno un carattere comune che potrebbe rassicurare gli animi superficiali, ma che, malgrado l’apparenza, ne costituisce il vero pericolo: non hanno un obiettivo definibile. Nel corso di tutta la storia umana è possibile verificare che i conflitti in assoluto più accaniti sono quelli che non hanno un obiettivo. Questo paradosso, una volta colto con chiarezza, è forse una delle chiavi della storia; è certo la chiave della nostra epoca.

Una sorta di paradosso, forse, è anche il seguente. Fino al 24 febbraio nessuno credeva fosse possibile una guerra in Europa (non si sa perché, visto che negli anni ’90 c’era stato qualcosa di molto sanguinoso in Jugoslavia) ma nello stesso tempo si riteneva – anche prima di quella data – che la guerra era sempre qualcosa di cui tener conto tant’è che ci si continuava ad armare, invertendo la tendenza degli ultimi anni della guerra fredda. Simone Weil continua:

Quando c’è una lotta riguardo a un obiettivo ben definito, ognuno può valutare questo obiettivo e insieme i costi probabili della lotta, decidere fino a che punto varrà la pena di sforzarsi; in generale, non è nemmeno difficile trovare un compromesso preferibile, per ognuna delle due parti in causa, a una battaglia anche vittoriosa. Ma quando una lotta non ha obiettivo, non c’è più misura comune, non c’è più equilibrio, proporzione, confronto possibile. Un compromesso non è nemmeno concepibile.

E, ancora:

Per chi sa vedere, non c’è oggi sintomo più angosciante del carattere irreale della maggior parte dei conflitti che sorgono: hanno ancora meno realtà del conflitto tra greci e troiani. Al centro della guerra di Troia, almeno c’era una donna … Per i nostri contemporanei, il ruolo di Elena è svolto da parole adorne di maiuscole. Se potessimo afferrare, nel tentativo di comprenderla, una di queste parole gonfie di sangue e di lacrime, vedremmo che è priva di contenuto. Le parole che hanno un contenuto e un senso non sono omicide. … Ma si mettano le maiuscole a parole vuote di significato, e, per poco che le circostanze spingano in questa direzione, gli uomini verseranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine, ripetendo queste parole, senza poter mai ottenere effettivamente qualche cosa che a queste parole corrisponda; niente di reale potrà mai corrispondere, perché non vogliono dire niente. … Beninteso, non sempre queste parole sono in sé prive di senso; alcune ne avrebbero uno, se ci si desse la pena di definirle in modo conveniente. Ma una parola così definita perde la sua maiuscola, non può più servire da bandiera, né tenere le sue posizioni di fronte alle vuote parole d’ordine nemiche; è solo un riferimento per aiutare a cogliere una realtà concreta, o un obiettivo concreto, o un metodo d’azione: chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane.

Tutto il volumetto di Simone, e, in particolare, il saggio a cui abbiamo fatto cenno, ci permettono di vedere le cose da un punto di vista diverso. Il 24 febbraio è una data cruciale perché certifica in via definitiva che i profondi squilibri e problemi che hanno fatto scoppiare la Grande guerra (quella del 1914/18) sono ancora tutti lì. E il motivo è che non è stata data attuazione (e ulteriore sviluppo) alle innovazioni proposte negli anni intorno al 1945. E, a partire dagli anni ’80, si è addirittura interrotto questo processo innovativo, tornando indietro.

Il testo completo può essere scaricato da qui

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